«Un giorno un artista si vantava del suo metodo per purificare e perfezionare i suoi colori. Jean-Baptiste-Siméon Chardin, irritato dalle dichiarazioni di quell’uomo, al quale non riconosceva altro talento se non un’esecuzione fredda e curata, gli disse: “Ma chi vi ha detto che si dipinge con i colori?” “E con che cosa, allora?” Replicò quello, stupefatto. “Ci si serve dei colori”, rispose Chardin, “ma si dipinge con il sentimento”» (Cochin 1875-1876, p. 434).
Ma chi era Jean-Baptiste-Siméon Chardin (Parigi, 2 novembre 1699 – Parigi, 6 dicembre 1779), il pittore del silenzio e del sentimento?
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, gli inizi
Nato a Parigi nel 1699 da una famiglia di artigiani, ebbe come maestro Pierre-Jacques Cazes (1676-1754) grazie al quale imparò a disegnare e si avvicinò alla pittura di storia.
Provò ad entrare all’Accademia Reale di Pittura ma non vi riuscì e presto rinunciò alla pittura di storia -allora il genere più importante e dunque quello più remunerativo- indirizzando la sua carriera verso la pittura di genere.
Tale decisione si deve probabilmente a più fattori. Innanzi tutto per l’agguerrita concorrenza: tra i suoi coetanei si contano pittori come Charles-Joseph Natoire, Pierre Charles Trémolièrs, Francois Boucher e Carle van Loo, ovvero quella generazione che avrebbe consegnato alla Francia il primato in campo artistico nell’Europa del Settecento.
Inoltre, non era portato per il disegno né per la rappresentazione del movimento e dell’azione. Fece dunque di questa debolezza il suo punto di forza, traendone una espressività originale che non ha eguali nell’arte settecentesca.
Jean-Baptiste-Siméon Chardin e la natura morta
La sua “conversione” alla natura morta è stata uno degli argomenti principali di molti biografi: il famoso coniglio (il primo soggetto di questo tipo) è stato citato innumerevoli volte. Ma non è tanto il soggetto ad impressionare quanto il modo di rappresentarlo.
Parigi, Musée du Louvre
«se voglio occuparmi solo di renderlo con verità, bisogna che dimentichi tutto ciò che ho visto e anche il modo in cui questi soggetti sono stati trattati da altri. Bisogna che lo ponga a una distanza tale da non poter più vedere i dettagli. Devo preoccuparmi soprattutto di imitare bene e nel modo più veritiero possibile i volumi complessivi, le loro tonalità cromatiche, la rotondità, gli effetti della luce e delle ombre» (Cochin 1875-1876, p. 434).
Ma da chi voleva allontanarsi?
Non aveva compiuto il tradizionale viaggio in Italia ma in Francia doveva aver visto numerose opere degli artisti dei Paesi Bassi. Quindi i primi dai quali voleva distinguersi erano sicuramente i pittori fiamminghi.
E se in un primo momento aveva sostenuto che la fonte principale per il pittore fosse la «propria mente», osservando con attenzione quella lepre, presto capì l’importanza della natura, che da quel momento studiò incessantemente e ossessivamente fino alla fine della sua carriera.
In effetti se confrontiamo le sue opere con quelle di altri specialisti della natura morta, pensiamo alla selvaggina di Frans Snyders (1579-1657) o di Jan Fyt (1611-1661) o alle ricche composizioni di Abraham Van Beyren (1620- 1690), di Jan Davidsz de Heem (1606 – 1683/1684), Giuseppe Recco (1634-1695) e di Giovan Battista Ruoppolo (1629-1693) la differenza salta immediatamente all’occhio.
Chardin non sovraccarica le composizioni, non si vanta dei decori. Le sue nature morte non sono allegorie e neppure vanitas.
Chardin e l’uso degli utensili da cucina e oggetti d’uso quotidiano
Dal 1730 il pittore iniziò ad inserire dei nuovi soggetti raffigurando utensili da cucina e oggetti d’uso quotidiano. Nessuno prima di lui ha saputo svelare la bellezza dietro questi oggetti: paioli, pentole, brocche vengono rappresentati in modo realistico ma poetico e magico esaltandone la bellezza semplice.
Chardin nel contesto dell’arte francese del XVIII secolo
Jean-Baptiste-Siméon Chardin viene definito il pittore francese che meglio rappresenta il suo secolo. Eppure, guardando i suoi contemporanei egli risulta un outsider.
La maestria esecutiva degli artisti settecenteschi è innegabile: merito degli studi all’Accademia. Tutti eccelsi disegnatori, abili nel cogliere le emozioni passeggere, i moti, e soprattutto erano dei grandi narratori. Che fossero temi biblici, mitologici o storici tutti sapevano raccontare.
Pensiamo a Francois Boucher (1703-1770), grande interprete dei temi mitologici, degli amori degli dei. Definito “il cantore del corpo femminile; pur senza turbare, seppe trascrivere la bellezza generosa e il fascino provocante della donna […] senza mai cadere nella volgarità” (Chardin. Il pittore del silenzio 2010-2011, p. 43).
Oppure all’incredibile, complesso e poliedrico Jean-Honoré Fragonard (1732–1806), interprete dell’istintivo, dell’impulsivo, del naturale e della gioia di vivere in ogni sua forma.
Niente di più diverso da Chardin, che intraprese una strada tutta sua scegliendo di ritrarre oggetti inanimati posti di fronte a sé ad una certa distanza dal cavalletto. Anche la sua pennellata è totalmente diversa rispetto ai suoi contemporanei: si pensi alla pittura levigata di Boucher e a quella di Fragonard. La pennellata di Jean-Baptiste-Siméon Chardin è corposa, oleosa, composta da strati di pittura sovrapposti. Fu l’unico della sua generazione a dipingere soltanto quello che vedeva, quello che aveva davanti… lasciando perdere il movimento.
Scelse il mondo inanimato, quello “che non si lasciava raccontare” e questo turbò i contemporanei che non si rassegnavano all’idea che “un quadro non raccontasse una storia” (Chardin. Il pittore del silenzio 2010-2011, p. 35). Gli incisori che tradussero le sue scene in stampe alla moda ovviarono al problema aggiungendo delle didascalie esplicative, talvolta fraintendendo il soggetto. Come nel caso della Vivandiera: la povera serva fu difatti tacciata di disonestà, come recita la didascalia:
“Del vostro aspetto mi do pensiero/ cara ragazza, ma senza calcolare/ che dalla spesa prendete/ ciò che vi serve per vestire” (Jean Siméon Chardin. Il pittore del silenzio 2010-2011, p. 35).
Respinse ogni forma aneddotica, ogni narrazione, ogni riferimento all’attualità ma anche ogni allusione morale o ideologica. La sua arte è seria. I soggetti raramente guardano l’osservatore, anzi lo ignorano.
La sua è un’arte pudica, casta, nessuna tensione sessuale, nessuna allusione nei suoi fanciulli. Nessuno dei doppi sensi che piacciono tanto al Settecento, pensiamo alla pittura di Jean-Baptiste Greuze (1725 – 1805).
I suoi soggetti sono sempre immersi nel loro mondo pacato e silenzioso, assorti nelle loro attività, lontani dagli intrighi, dai pettegolezzi, e da quella piacevolezza voluttuosa che troviamo nelle opere dei contemporanei. Si pensi alla Ragazza con volano o al Ragazzo che fa le bolle di sapone. I loro gesti sono sospesi in un metafisico silenzio.
Ed è proprio “il visibile silenzio degli ambienti” (Praz 1941, p. 40), citando Mario Praz, che colpisce di più.
La sua pittura è lontana dal lusso, dall’eccesso, dalla sensualità, dai sorrisi e dalle distrazioni. Lui preferiva l’armonia, amava le cose semplici, umili, la vita quotidiana e ripetitiva. Amava gli esseri umani e le cose.
Jean-Baptiste-Siméon Chardin e le ultime opere
Proprio una delle ultime nature morte risulta essere tra le opere più audaci del suo secolo. Quel famoso mazzo di garofani in un vaso di maiolica stupì per i colori, per il rifiuto di ogni soluzione illusionistica e per la prontezza d’esecuzione.
Costui, disse Denis Diderot al Salon del 1763, “coglie l’armonia dei colori e dei riflessi. Oh Chardin! Quello che mescoli sulla tua tavolozza non è del bianco, del rosso o del nero, ma la sostanza stessa degli oggetti: prendi con la punta del tuo pennello l’aria e la luce e le fissi sulla tela. Non si capisce nulla di questa magia” (Diderot 1763, Salon de 1763).
Bibliografia:
Chardin: il pittore del silenzio (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 17 ottobre 2010-30 gennaio 2011), a cura di Pierre Rosenberg, Ferrara arte, Ferrara 2010.
Charles-Nicolas Cochin, Essai sur la vie de Chardin (ms. 1780), in Précis analytique des Travaux de l’Académie des Sciences, Belles-Lettres et Arts de Rouen,a cura di Ch. Beaupré, t. 78, 1875-1876, pp. 417-441.
Denis Diderot, Salons (1759-1781), a cura di J. Seznec e J. Adhémar, 4 voll., Oxford 1957-1967.
Mario Praz, Prolegomeni alla narrativa dell’Ottocento (1941), in Mario Praz, Motivi e figure, Einaudi, Torino 1945, pp. 40-42.
Pierre Rosenberg, Tout l’oeuvre peint de Fragonard, Le Classique de l’art, Flammarion Paris 1989.