Regia costumi e scenografia di Angelo Bertini
Genesi dell’opera
Venezia nel Settecento è fortemente influenzata dall’Oriente questo vuol dire che le dieci “fiabe teatrali chinesi” scritte dal veneziano Carlo Gozzi, nel 1761-1765, furono realizzate quale antidoto e polemica risposta al nuovo teatro del concittadino Carlo Goldoni. Queste fiabe sono lavori in cui si contrappongono una drammaturgia antirealistica e affabulata nella quale convivono il tragico e il comico: l’Oriente di personaggi di sangue reale e la stilizzazione di vizi e virtù, tipi e comportamenti umani incarnati dalle Maschere.
Ad un polo della controversia troviamo Gozzi il “conservatore” nostalgico della Commedia dell’Arte, il quale con le sue “fiabe chinesi” imprime un ultimo guizzo di vita al genere del teatro improvvisato su un canovaccio. Dall’altra parte invece troviamo Goldoni “l’innovatore” le cui Commedie non sono più costituite da Maschere ma da Caratteri, cioè personaggi.
La Turandotte di Gozzi è uno spiritoso lavoro tra il fantastico ed il quotidiano tra prosaico ed irreale dove il meccanismo teatrale nasce da un contrasto di fondo quello della vicenda della principessa che si vendica della situazione della donna in Oriente. Queste fiabe furono riprese e reinterpretate da Wagner, Weber, Schiller, Busoni fino ad arrivare a Giacomo Puccini[1]. L’approccio di Puccini è un occasione per ricreare, grazie ad un Oriente crudele e vendicativo, una dimensione fuori del tempo eterna e impassibile[2].
Vita di Giacomo Puccini
Giacomo Puccini nacque a Lucca il 22 Dicembre 1858. Nel 1880 lasciò la città natale per studiare composizione a Milano presso il Conservatorio. Finiti gli studi iniziò a dedicarsi completamente alla composizione e nel febbraio del 1893 con Manon Lescaut riuscì a raggiungere il successo e la notorietà.
Nel 1891 si trasferì con la famiglia a Torre del lago dove scrisse la maggior parte delle sue opere[3]. L’idea per la realizzazione di Turandot venne al compositore in seguito a un incontro con i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, avvenuto a Milano nel marzo 1920. Il libretto dell’opera di Puccini si basa, molto liberamente, sulla traduzione di Andrea Maffei dell’adattamento tedesco di Friedrich Schiller del lavoro di Gozzi. Il vero ostacolo per il compositore fu, fin dall’inizio, la trasformazione del personaggio di Turandot, da principessa fredda e vendicativa a donna innamorata.
Nel dicembre del 1923 Puccini aveva completato tutta la partitura fino alla morte di Liù, del finale però sono rimasti solo appunti discontinui. L’opera rimase incompiuta poiché Puccini morì a Bruxelles nel 1924 per un infarto miocardico acuto, sopraggiunto qualche giorno dopo un intervento chirurgico eseguito per estirpare un diffuso cancro alla gola[4]. Il finale di Turandot venne affidato , su decisione dell’editore Ricordi e di Arturo Toscanini, all’allora Direttore del Conservatorio di Torino, Franco Alfano. Bocciata da Toscanini la prima stesura del finale, Alfano fu costretto a realizzarne una seconda scorciata stesura.
L’ Opera esordì alla Scala di Milano il 25 aprile 1926 , Toscanini dal podio si arrestò nel punto in cui la partitura del compositore si era fermata e cioè la morte di Liù ed il corteo funebre.
Trama di Turandot
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri.
Atto I:
È il tempo delle favole. A Pechino la Principessa Turandot dovrà andare in sposa a colui che riuscirà a sciogliere i tre enigmi da lei proposti. Se lo sfidante non riuscirà a risolverli morirà decapitato. L’ultimo a salire sul patibolo è il Principe di Persia. Nella folla, accorsa per assistere alla decapitazione, vi è un vecchio cieco accompagnato da una schiava , Liù. Il vecchio cieco viene travolto dalla folla, viene soccorso Calaf, Principe in esilio che però riconosce nel vecchio ,il padre, Timur. Dalla reggia appare la principessa di ghiaccio che condanna a morte il Principe di Persia, alla vista della donna Calaf si innamora perdutamente. Decide quindi di risolvere gli enigmi sfidando la morte. Il padre, la schiava ed i Ministri dell’imperatore (Ping, Pong, Pang) cercano di dissuaderlo ma Calaf è irremovibile e batte sul Gong i tre colpi che annunciano la sfida.
Atto II:
Mentre i tre mandarini ricordano la vita passata entrano in scena i sapienti, l’imperatore e la folla. Anche l’imperatore cerca invano di dissuadere Calaf. Turandot nel mentre rievoca la sua ava Lou-Lang violentata dall’invasore, per vendicarla, Turandot ha giurato che non apparterrà mai a nessuno. Turandot propone i tre enigmi a Calaf, lui li svela. La principessa disperata implora il padre di non darla in sposa al vincitore. Calaf decide di porre a sua volta un enigma. “Il mio nome qual è? Dimmi il mio nome prima dell’alba e all’alba, morirò!” se non lo indovina dovrà sposarlo.
Atto III:
Per ordine di Turandot tutti i sudditi cercano di scoprire il nome. Vengono rintracciati e imprigionati Timur e Liù, li interroga Turandot ma Liù che è innamorata di Calaf pur di non rivelare il nome si uccide. Il sacrificio della schiava turba la regina di ghiaccio nel quale si è già insinuato il sentimento dell’amore di modo che quando Calaf le rivelerà il suo nome, Turandot annuncerà al padre che il nome dello straniero è “ AMORE”[5].
Angelo Bertini Regista, scenografo e costumista dell’edizione 2014
Sessant’anni (1954) fa nacque il Festival Pucciniano, stagione estiva dedicata alla rappresentazione di opere scritte dal maestro. Il regista, scenografo e costumista che ha curato l’edizione di quest’anno è Angelo Bertini. Nato il 16 gennaio 1966 intraprende la carriera di odontoiatra, ma rimane comunque affascinato dall’ambiente teatrale fin da piccolo, ha studiato per diversi anni pianoforte e la prima opera da lui vista probabilmente fu Turandot. Dal 2000 si occupa di regia, scenografia e costume teatrale. Nel 2006 allestisce a Camaiore una mostra intitolata “ Ipotesi di Turandot” nella quale era già presente il tema della gabbia e il richiamo alle avanguardie dei primi anni Venti del Novecento, come vedremo nella Turandot allestita quest’anno.
Il Gran Teatro all’aperto a Torre del Lago
Lo spettacolo si è svolto nel Gran Teatro all’aperto a Torre del Lago. Grazie ad un ambizioso progetto promosso dal Comune di Viareggio, dalla Regione Toscana e dalla Fondazione Festival Pucciniano è stato possibile realizzare il teatro che accoglie la stagione lirica torrelaghese.
Il teatro è ubicato in riva al Lago di Massaciuccoli all’interno di una vasta area delimitata a nord e ad est dal bacino lacustre del lago, a sud dal piazzale Belvedere dov’è situata la casa di Giacomo Puccini e a ovest dalle abitazioni. L’Arena, perché il teatro ,appunto, possiede questa forma, accoglie 3.2000 spettatori su una struttura a gradoni in cemento legno e cristallo. L’impianto acustico è stato progettato dal catalano fisico acustico Higini Arau, che ha dovuto affrontare le problematiche di sonorizzazione presente in uno spazio vasto ed aperto come questo.
Il teatro rimanda alle antiche arene dei teatri greci, grazie appunto alle gradinate rivolte verso uno sfondo suggestivo come quello del lago. L’arena, termina con la fossa dell’orchestra di 190m e con il palcoscenico, al di sotto del quale sono stati ricavati ambienti per l’attività musicale invernale e per gli artisti( camerini, deposito attrezzi, foyeur artisti).
Il palcoscenico invece ha una forma molto ampia, possiede una superficie di 650 mq ed una profondità di 20 m , il che fa pensare che è stato concepito per spettacoli di danza e di lirica che come scenografia possiedono lo sfondo del lago. Gli accessi al palcoscenico sono numerosi e abbastanza ampi pensati per i movimenti che le numerosissime comparse fanno durante lo spettacolo, e non per i cambi di scena.
Data la completa assenza di parti meccaniche fisse o comunque data la difficoltà nel
dotare la scena di carri non sono consentiti particolari cambi scena, e le soluzioni che si potrebbero adottare richiedono molto lavoro, nella fase di preparazione, da parte del personale che deve portare anticipatamente tutto il materiale scenico a piano palcoscenico.
Invece per quanto riguarda gli effetti della luministica, le soluzioni che si presentano sono molto scarse: è prevista soltanto la disponibilità di porre sostegni orizzontali per le luci nella zona anteriore e in quella posteriore vincolandoli tra le torri anteriori e posteriori. Sennò altra soluzione più che valida è porre le luci di scena sulle rispettive torri dando la possibilità di illuminare la scena al completo senza interferire ed ingombrare quest’ultima.
La scenografia di Turandot
Citando Angelo Bertini “La Turandot che propongo nasce dal desiderio di far emergere la visione avanguardistica e internazionale che Puccini era solito intercettare nel suo percorso creativo; il deciso distacco dal realismo verso una direzione di rigidità metaforica – tipica della favola e del Puppenspiel – per me si traduce nell’enfatizzazione del netto e violento dualismo nonché dell’elemento simbolico-rituale che ne regola l’alternanza svelandone il valore archetipico.
La scelta stilistica si muove attraverso una reinterpretazione delle fonti avanguardistiche del periodo, concentrandosi, in particolare, sull’art dèco (con richiami a influenze dell’art nouveau, al bizantinismo klimtiano e al grafismo di Beardsley) in commistione con il gusto, allora imperante, dell’esotismo. La reggia di Turandot, congegno ideale per l’infinita reiterazione del gioco meccanico vita-morte, manifesta tutto il suo austero immobilismo nella preziosa costrizione di una gabbia dorata, da lei indotta e allo stesso tempo subita. Il pavone dorato che sovrasta la reggia assurge a centro focale dei simboli impersonificati da Turandot: lei stessa è il terzo enigma, la donatrice di morte, il pericoloso riflesso della luna, la reincarnazione dell’orrore e della violenza subita (dall’ava Lou-Ling), ma è anche un profumo, un’essenza che si diffonde nell’aria e che viene riconosciuta da Calaf come uno Yin a lui complementare, dando origine a una forza che scorre ciclica attraverso la materia dell’Universo, ma solo per un attimo, nello spettacolo del gran teatro del mondo.”
La scenografia realizzata per Turandot, messa in scena nella stagione estiva 2014, prevedeva una scena fissa, con l’aggiunta di elementi scorrevoli. Essendo un teatro all’aperto di vaste dimensioni il sipario è assente, di conseguenza per la conclusione dell’atto si fa uso del buio totale. L’arco scenico, fondamentale nel teatro al chiuso, è assente.
L’illuminazione del palcoscenico è resa possibile da, se cosi le possiamo definire, torri sceniche le quali, foderate di stoffa, possiedono braccia per sorreggere i fari che illumineranno la scena. Le quinte sono un tutt’uno con la scenografia : probabilmente costruite con materiali leggeri si fondono con la scena creando dei varchi per l’entrata di comparse e cantanti.
Il fondale è assente, o almeno non è fittizio ma reale costituito, appunto, dal suggestivo lago di sfondo.
– Atto I: nel libretto di sala redatto da Adami e Simoni si descrive la scena in questo modo “ le mura della Città Imperiale chiudono quasi tutta la scena in semicerchio. Sugli spalti sono infissi i pali che reggono i giustiziati. A sinistra e nel fondo, s’aprono nelle mura tre gigantesche porte. Siamo nell’ora più sfolgorante del tramonto. Il piazzale è pieno di una pittoresca folla cinese”[6]
La popolazione viene rappresentata con delle gestualità standardizzate e ripetitive che rimandano, diversamente da quanto è espresso nelle istruzioni di scena del libretto Ricordi alle masse lavoratrici di Fritz Lang in Metropolis, e seguendo questa idea la reggia è rappresentata, da Bertini, come un grande marchingegno mortalmente pericoloso: è sufficiente battere il gong perché il gioco abbia inizio.
Nella Turandot di Bertini le mura della città sono rappresentate in modo simmetrico e rigido, non formano un semicerchio bensì una struttura lineare precisa, vi sono quattro entrate laterali due a destra e due a sinistra.
La scenografia come, già detto, è fissa costituita da un grande palazzo che ricorda una gabbia, rimanda ad un carillon decorato con motivi che, per esempio, fanno riferimento all’albero della vita di Gustav Klimt realizzato all’incirca nel 1907.
I colori fondamentali sono l’oro ed il nero che riprendono il dualismo onnipresente tra Luce- ombra , vita-morte, bene-male dell’opera messa in scena.
All’aprirsi del palazzo vi è una sorta di gabbia dorata geometricamente molto elaborata, anch’essa scorrevole, che congiungendosi va a creare un’apertura di forma esagonale.
Bertini sostiene che “la reggia l’ho pensata come un grande marchingegno: una sorta di carillon tanto prezioso quanto mortale: è sufficiente battere il gong perché il gioco meccanico abbia inizio.” Il palazzo rimanda ad una sorta di enorme paravento art Nouveau con su disegnato un enorme pavone in oro e rosso che si staglia su uno sfondo di colore nero.
Questa figura è ripresa da una piastrella realizzata da Galileo Chini in foglia d’oro. Ma come mai raffigurare un pavone su i Portoni di una reggia? La risposta è che nella simbologia cinese il pavone è emblema di bellezza e dignità rappresenta altresì la regalità. Dall’epoca Ming le sue piume erano usate per indicare i ranghi ufficiali.
Il “ Paravento” è costituito da due tele mobili scorrevoli, all’apertura di quest’ultimo si può osservare una scalinata che culmina nel primo atto, con una Luna immensa.
La scalinata alla fine del primo atto culmina con una sfera bianca, che girandosi lentamente mostra la Principessa di ghiaccio come irraggiungibile, di un altro pianeta questa scelta è giocata sul fatto che nel libretto di Adami e Simoni la prima apparizione di Turandot è descritta ”appare turandot, come una visione. Un raggio di luna la investe.” [7] c’è un’identificazione perfetta tra Turandot e la luna. Tramite l’analisi svolta da critici e musicologi Turandot con viene identificata con la Luna e Calaf con il sole. Sono due elementi contrapposti ed infatti poi quando Calaf canta “all’alba vincerò” egli vince con il sole, con la vittoria del sole sulla luna.
Probabilmente lo scenografo, Bertini, ha creato questa rappresentazione prendendo spunto dalla Turandot realizzata da Hugo de Ana nel 1996 a Macerata[8].
Oltre a questa funzione di svelare la Principessa, la sfera rappresenta la luna, in un modo a dir poco sconvolgente. Gli oggetti di scena sono minimi, il più importante è il Gong posto al centro della reggia. Calaf abbagliato dall’apparizione di Turandot decide di sfidare la sorte suonando il Gong per tre volte ed innescando il giochino mortale.
Le tre Maschere Ping Pong e Pang gli sbarrano la strada. Si presentano allo spettatore in un modo meccanico, con una gestualità completamente fuori dall’ordinario. In tutto questo trambusto appaiono le ancelle della Principessa, esse hanno sul volto una sorta di maglia dorata che le nasconde completamente. Le ancelle sono costrette a vivere in una sorta di asessualità, un annullamento completo della sessualità che Turandot ha imposto a tutta la corte. Questo annullamento viene mostrato allo spettatore attraverso l’effetto vedo/non vedo della “maschera” che sono costrette a indossare le ancelle.
In primo piano vi è una sorta di Botola, che rimanda chiaramente alla tradizione del teatro greco dell’Anapiesma[9] dove uscivano le divinità infernali da sotto il teatro e salivano fin su la scena. Sempre nel primo atto come è ricordato nel libretto di Ricordi appaiono le ombre dei morti in lontananza, mentre Bertini le fa uscire da sotto il palco ,centralmente, sconvolgendo l’assetto datogli nel libretto .
Così Bertini, quando il popolo, insieme ai ministri, ricorda tutti i principi morti per risolvere gli enigmi, apre la botola da dove spuntano i fantasmi di quest’ultimi accompagnati da effetti di fumo e luci fredde blu e verdi.
All’aprirsi del palazzo vi è una sorta di gabbia dorata geometricamente molto elaborata, che rimanda allo stile Art Nouveau tipico dei primi anni del Novecento. La gabbia è formata da due pannelli, probabilmente realizzati in compensato, che congiungendosi creano una struttura di forma esagonale.
6.2) Atto II
“Appare una vasta tenda, tutta decorata da simboliche figure cinesi. La scena ha tre aperture. Appare Ping che chiama i suoi compagni” così si doveva aprire il secondo atto dell’opera.
Mentre la scenografia di Bertini si presenta con il palazzo chiuso, il quale si apre solo quando ognuno dei Ministri ricorda il proprio passato. Ping ha una casa nell’Honan con il suo laghetto blu tutto cinto di bambu ( si apre la reggia e vengono introdotte delle sagome che rimandano alla sua casa), Pong “ha foreste presso tsiang, che più belle non ce n’è (compaiono sullo sfondo sagome di alberi) Pang ha un giardino presso Kiù ( compaiono sagome del giardino con un ponticello) e la luce con cui vengono irradiate le sagome è dorata.
I tre ministri di Turandot ( Ping, Pong e Pang) sono le tre maschere che eseguono, senza ribattere, gli ordini di Turandot con una ripetitività ciclica. Da queste figure Bertini, trae lo spunto per poterle rappresentare come Marionette[10] facendo riferimento alla teoria della Supermarionetta di G.Craig.
I costumi-scultura dei tre personaggi sono realizzati con colori vivaci non calzano a pennello e sono molto più grossi delle figure che li portano conferendo ,ai ministri, un senso di rigidità. L’ispirazione è stata data a Bertini, come lui stesso sostiene, da un Manifesto realizzato da Picasso e intitolato la Parade de Satie nel 1917[11] . Non è stato solo il manifesto a influenzare la scelta dei costumi-scultura ma anche lo spettacolo stesso di Parade, avanguardista sotto tutti i punti di vista: Costumi, scene e storia.
Parade è un balletto di solo un atto, le musiche sono state scritte da Erik Satie, la coreografia diretta da Leon Massine (coreografo dei balletti russi) il poema scritto da Jean Cocteau ,il quale , commissionò a Picasso la realizzazione delle scene e dei costumi. L’opera debuttò a Parigi al Theatre di Chatelet nel 1917.
Ritornando alla botola, elemento innovativo per una rappresentazione di Turandot, essa è concepita principalmente come la tomba dell’ava Lou-ling, quando Turandot esce dalla tomba viene da pensare che è la depositaria di un culto.
Alla domanda la botola nel pavimento che significato assume nell’opera Bertini mi risponde cosi:
“Quando Turandot appare nel II ATTO II QUADRO, l’aria di Turandot spiega il motivo del suo odio per gli uomini, infatti lei dice che sta vendicando la sua ava che era stata violentata e uccisa da un principe Tartaro. Turandot non lo sa, ma il pubblico si ,che Calaf è un principe tartaro quindi di nuovo la storia si ripete. E’ molto ciclica, di conseguenza per me mettere in scena la tomba aveva una funzione registica. Tutta la regia è giocata sulla tomba perché innanzitutto bisogna partire dal frontespizio dello spartito: Turandot è al tempo delle fiabe a Pechino quindi l’identificazione spaziale è Pechino ma temporale è assolutamente inventata ( il tempo delle fiabe). Incentrare il tutto su un concetto astratto ma fiabesco ha senso perché è nell’incipit del testo.
Aprire questa tomba, cioè fare in modo che Turandot appaia ,non come appare normalmente o lateralmente o dall’alto, ma dal basso è come se lei fosse la depositaria del culto di questa ava deceduta. L’ava assume un significato di demone, un demone che la pervade. Di conseguenza anche tutto il corteo delle ancelle che avevano queste maschere che gli coprivano il volto, era un imposizione da parte di Turandot a tutta la corte, questo annullamento della sessualità tutto è come cristallizzato in questa adorazione di questa ava concepita quasi come idolo.
Nel momento in cui muore Liù , per me è stato molto utile ed interessante farla deporre sotto nella tomba perché il demone è saziato, per una frazione di secondo si rompe l’incantesimo un po’ come la Bella Addormentata nel bosco quando viene baciata dal principe ed il castello coperto di rovi ritorna al precedente splendore.”
Questo voler rappresentare una ritualità dell’opera è visibile anche quando appare il coro dei bambini: essi, nelle entrate che attuano sono sempre collegati con l’entrata di Turandot, rappresentano i bambini mai nati, cioè tutti quei bambini che Turandot avrebbe potuto avere se si fosse sposata o abbandonata all’amore.
I bambini portavano delle tuniche bianche ed avevano in mano delle sfere della stessa colorazione, probabilmente questa scelta è stata fatta sulla base di alcune statuine Art decò, che appunto tenevano in mano una sfera.
Non vi sono grandi giochi di luci: vi è un seguipersone (Occhio di Bue) che illumina sempre il cantante o la cantante, e luci all’americana che sono luci fisse ed illuminano la scena in modo più o meno forte con colorazione diversa a seconda del tipo di atto che si intende rappresentare. La colorazione delle luci va dal rosso, al giallo al blu.
6.3) Atto III
All’inizio del terzo atto, la scena dovrebbe svolgersi nel giardino della reggia, Bertini non mostra nessun giardino agli spettatori. Gli araldi entrano in scena, hanno costumi di un blu cobalto molto sgargiante, facendo una ricerca molto accurata sulla coloristica di Galileo Chini si può dedurre che i colori scelti da Bertini per queste figure rimandino ad un dipinto intitolato tempesta sul mare.
Nel passo “nessun dorma” cantato da Calaf la scena è illuminata da una tenue luce blu scuro, l’occhio di bue segue Calaf nei suoi spostamenti, mentre dietro delle comparse portano piccoli led a intermittenza che vengono poi posizionati in terra e sulla gradinata cosi da dare l’illusione di una notte stellata. Questa idea è nata dal verso “ Nessun dorma! Nessun dorma!
Tu pure , o Principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle che tremano
d’amore e di speranza!
Continuando poi con “ Dilegua o notte! Tramontate, stelle! Tramontate stelle!”.
Liù catturata dagli sgherri di Turandot no vuole rivelare il nome di Calaf, perché perdutamente innamorata di lui decide di farlo vincere suicidandosi. Alla sua morte il cadavere viene deposto nella tomba dell’ava Lou-ling questa scelta registica è per far capire che adesso il demone che pervadeva Turandot è saziato. Turandot si libera della corazza( il mantello) e si abbandona all’amore, perché Calaf le confessa il suo nome.
Turandot va dal padre confessando che il nome dello straniero è AMORE, grande festa a palazzo la reggia è illuminata con delle forti luci rosse piazzate sulla base del pavimento.
Analizzando con più attenzione il complesso della reggia si può ipotizzare che ci siano vari riferimenti ad Adolphe Appie e Leopold Jessner.
Le Teoria di Appia le possiamo vedere messe in atto nella verticalità della reggia, mentre vi è un chiaro riferimento nella scalinata a Jessner.
La scalinata presente sulla scena pucciniana potremmo metterla a confornto con la scala realizzata da Emil Pirchan per il Guglielmo Tell di Schiller nel 1919 con, appunto, il cosi detto “ jessner-staircase” .
Costumi
I costumi di scena di Turandot sono un elemento fondamentale. Sono ispirati a Ertè, George Barbier e Aubry Beardsley artisti art Nouveau. La principessa che all’inizio dell’opera è irremovibile e fredda nel corso della rappresentazione si sgretola. Bertini per mostrare allo spettatore questo aprirsi all’amore escogita una sorta di anticipazione: ad ogni risoluzione degli enigmi lentamente si apre la gabbia dorata; quando poi Calaf riuscirà a risolvere il terzo enigma Turandot si priva del mantello, usato come corazza, ed inizia ad essere vestita di bianco ,colore che indentifica purezza e la libertà.
Romain de Tirtoff in arte Ertè fu uno dei massimi rappresentanti dell’art decò i motivi presenti su molti costumi di scena si può pensare che rimandino alla Venus[12] realizzata da lui, la quale sulla vesta ha ricamati motivi a spirale. Sempre a Ertè fanno riferimento i costumi delle ancelle .
Il mantello di Turandot invece potrebbe rimandare a un dipinto realizzato da Gustav Klimt, probabilmente alla Pallade Atena[13] che ha questa corazza dorata come se fosse una pelle di drago la stessa che possiede Turandot.
Altro artista preso in esame potrebbe essere Aubrey Beardsley famoso incisore liberty, il quale si dedicò all’illustrazione del libro di Oscar Wilde Salomè. Turandot si rispecchia molto con alcune incisioni realizzate da Beardsley soprattutto con l’incisione intitolata Veste da Pavone[14].
Conclusioni
Il regista, ha voluto prendere spunto da tutte queste avanguardie dei primi anni del Novecento per mostrare che in quegli anni c’era una ricchezza di sperimentazione che influenzava la produzione di quel tempo. Puccini conosceva tutto ciò, voleva stare al passo con i tempi ed era influenzato da tutti questi movimenti: Cubismo, Art Nouveau, Art Decò, Liberty.. Per questo motivo Puccini decise di cerare Turandot e per questo motivo Bertini ha deciso di rappresentare una Turandot diversa dall’ordinario. Essa si fa portavoce di tutte le influenza che Puccini subì e volle subire nei primi anni del Novecento.
Recensioni
OperaClick, quotidiano di informazione operistica e musicale, non è molto convinto riguardo alla Turandot realizzata da Bertini “sono evitate tutte le cineserie di maniera tipiche delle edizioni più classiche del titolo” mentre sostiene che i costumi sono “ l’elemento più riuscito”[15].
Full magazine invece asserisce che “la Turandot messa in scena da Angelo Bertini merita il ‘gradino più alto’ fra i vari allestimenti proposti quest’anno al Sessantesimo Festival Puccini” sostenendo poi che “Angelo Bertini, esordiente nel ruolo di un regista finemente attento e meticoloso in ogni dettaglio. La sua Turandot vive proprio di questo: l’attenzione al particolare. Una complessa e precisa rete di azioni, movimenti, simboli e manierismi ricercati in grado di tessere, scena dopo scena, figura dopo figura, un magnifico tappeto visivo per quella che è forse la più potente e completa (pur incompleta) opera del genio lucchese.” [16]
Ed infine il Tirreno elogia quest’opera che debutta a Zhuhai per l’inaugurazione del teatro Zhuhai Huafa, la prima è stata il 30 ottobre le altre due a seguire 31 ottobre e 1 Novembre[17].
Bertini confessa che essendo un teatro al chiuso e molto differente rispetto a quello di Torre del Lago, non solo per le dimensioni ha dovuto elaborare dei nuovi accorgimenti. Hanno dovuto avvicinare le entrate laterali, hanno ridotto la reggia e hanno fatto a meno della gabbia situata sopra la reggia perché il boccascena era di 16 metri contro i 24 di Torre del Lago. L’unico grande cambiamento è stato lo spostamento della tomba perché nella base del palco non si poteva aprire un trabocchetto. Di conseguenza, è stata posta in cima e quindi Turandot appare sul montacarichi dell’imperatore, dietro di esso è stato montato un altro montacarichi da dove celato da un siparietto nero, appare quest’ultimo. Il concetto della tomba sicuramente era meno fruibile nel teatro cinese ma il regista non poteva rinunciarvi.
[1] 33° Festival Pucciniano 1987, Saggio di Jurgen Maehder, pp.2-5
[2] 48° Festival Puccini 2002,Cit. saggio di A. Cantù, pp. 59-60
[3] Ivi, p. 13
[4] http://www.sioechcf.it/allegati/storia/GPuccini_cap_16.pdf 27/10/2014 ore 11.31
[5] 40° Festival Puccini 1994, p. 12
[6] Cit. Libretto Turandot edizione Ricordi, p. 6
[7] Cit. Libretto Turandot edizione Ricordi, p. 8
[8] Vedi Fagone, Crespi Morbio 2003, p.
[9] Appendice al Dizionario delle origini AA.VV. 1833, p.20
[10] Gli studi di Gordon Craig portano alla teorizzazione della supermarionetta che si eleva al di sopra delle convenzionali pratiche teatrali con una nuova pratica basata su un movimento rigido e macchinoso.
[11] Nel febbraio del 1917 Picasso di trasferì a Roma per seguire la troupe dei Balletti russi, da qui egli eseguì molti bozzetti commissionati da Jean Cocteau per il balletto Parade, di Erik Satie. Va in scena il 18 maggio 1917 al Theatre du Chatelet di Parigi, balletto realista in un atto.
[12] Estorick 1992, p.39
[13] Frodl, p.42
[14] Boetti 1979, p.217
[15] http://www.operaclick.com/recensioni/teatrale/torre-del-lago-gran-teatro-allaperto-turandot-1
[16] http://www.fullmagazine.it/2014/09/turandot-bertini-miglior-spettacolo.html
[17] http://iltirreno.gelocal.it/regione/toscana/2014/10/30/news/talenti-toscani-per-la-turandot-cinese-1.10214500
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Complimenti sinceri Giulia ! E te lo dico proprio come ex Consigliere del Festival Pucciniano che scritturò Angelo Bertini , regista di quella Turandot... Bel lavoro : continua così e tanti toi, toi, toi per la tua carriera. Un abbraccio, Daniele Giannini
Grazie infinite per la profonda e accurata analisi del mio lavoro. Angelo Bertini