Icilio Federico Joni (P.A.I.C.A.P.) pittore di “Quadri Antichi”
Interessante è indagare su una delle personalità più irriverenti di inizio secolo: Icilio Federico Joni, con l’intento, inoltre, di far luce sulle motivazioni che hanno condotto questo artigiano a diventare uno dei più famosi falsari del Novecento.
Vi fu un epoca in cui, intorno al 1930, la notorietà di Joni crebbe a tal punto che finì per conferire un’aura di incertezza ad ogni fondo oro che provenisse dal mercato antiquario senese e fiorentino
Tale asserzione non fa altro che porre in risalto la grande capacità artistica di questo falsario, anche se, per Mazzoni, egli fu un qualcosa di diverso: un ricercatore. Joni si immedesimava nello stile e nella tecnica degli artisti del passato.
Ma chi era Icilio Federico Joni?
Icilio Federico Joni fu uno dei più grandi falsari toscani della sua epoca. Ma chi fu questo restauratore ed artista che in pieno Novecento riuscì ad ingannare storici dell’arte e collezionisti dando vita a madonne rinascimentali?
Joni nacque a Siena nel 1866, abbandonato infante alla Ruota dei Gettatelli iniziò la sua vita da orfano, trasferito di famiglia in famiglia. Furono anni di miseria nei quali Joni iniziò a lavorare (dai 14 anni) presso la bottega del Signor Angelo Franci come doratore. Da questa bottega iniziò la sua carriera lavorativa che lo portò, di conseguenza, a sviluppare il suo grande talento di artista affinatosi, poi, con l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti di Siena.
La straordinarietà di Joni consisteva nella sua grandissima capacità di manipolare sapientemente i materiali di modo che il dipinto su tavola avesse quelle caratteristiche che lo identificavano come antico. Questa sua dote di reinventare composizioni, invecchiare i pigmenti, gli ori e gli stucchi, di tarlare il legno era collegata all’attività di restauratore. L’abilità di Joni come “imitatore” cadeva perfettamente a pennello nella Siena di fine Ottocento.
Difatti a cavallo tra Ottocento e Novecento, vi fu una riscoperta dei primitivi senesi sancita dalla “Mostra dell’antica arte senese” del 1904: grazie ad essa, non solo circoli elitari, ma un pubblico più vasto iniziò ad interessarsi alla pittura Tardo Medievale. Tutto ciò permise, nella stessa Siena, di riprendere tecniche e tradizioni mai del tutto dimenticate, come sostiene lo storico dell’arte nonché Soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure Marco Ciatti:
il periodo tra Ottocento e Novecento vide il proliferare come mai si era visto il fenomeno della falsificazione e non è un caso se Siena è fucina di questo tipo di produzione. Nella città esistevano ancora molte botteghe artigiane, di falegnami, doratori per cui le tecniche e l’uso di materiali erano rimasti quelli antichi per di più essa offriva un ricchissimo patrimonio di opere da poter imitare
Una domanda, che può sorgere spontanea, è il perché vi fu una così intensa produzione di opere contraffatte; la risposta che ne consegue è semplicemente perché la richiesta di mercato era l’elemento scatenante nella produzione del falso. Il tutto può essere riconducibile ad una banale legge economica secondo la quale: quanto più è crescente una domanda di un bene, tanto più vi è la necessità di rispondere con un’offerta soddisfacente.
A questo interrogativo si possono dare diverse risposte: in primis si cerca di proporre un prodotto che si avvicini allo stile dell’ideatore di un opera, oppure si producono opere famose delle quali se ne dichiara la non autenticità; come ultima possibilità esiste una forzosa volontà di immettere nel circuito artistico- commerciale un’opera che induce il fruitore a credere che sia autentica, ma che in realtà è un falso d’arte.
Che cos’è un Falso d’Autore?
Il falso è da intendersi come un prodotto realizzato con il preciso scopo di ingannare riguardo l’autore e l’epoca della sua esecuzione; tale proposito è confermato dal collocamento dell’opera sul mercato. Tuttavia non si tratta solo di un oggetto fisico, ma altresì di un’esperienza culturale, in quanto nasce sempre da un determinato contesto ed è prodotto per soddisfare delle esigenze di cultura. Si differisce dal falso la copia “volta ad imitare la natura che riflette un pensiero divino poiché le bellezze della creazione manifestano il volto del divino stesso”.
La copia, in seguito, non è più utilizzata come ripetizione e trasmissione di “modelli”, ma viene adoperata come mezzo per far circolare opere originali apprezzate dal pubblico. Una dimostrazione di questa attività sono le copie di opere famose che continuano ad essere create per soddisfare la domanda di mercato: ad esempio, Ottaviano de’ Medici commissionò ad Andrea del Sarto la realizzazione del ritratto di Leone X di Raffaello, che poi fu inviata a Federico II Gonzaga. Questo fatto è raccontato anche da Vasari nelle Vite, lo stesso Vasari realizzerà una copia del ritratto di Leone X su incarico di Alessandro de’ Medici nel dicembre 1536.
Altri tipi di Falsi d’Autore
Un altro esempio di copia, che può essere preso in considerazione, è la diffusione delle stampe xilografiche come quelle di Ugo da Capri che riproducevano opere di Baldassarre Peruzzi ed altri grandi artisti, oppure i lavori di Marcantonio Raimondi.
Copie false per lo studio
La copia e l’imitazione erano utilizzate principalmente come mezzo di studio e venivano sfruttate dai maestri come puro esercizio di stile. C’è da mettere in risalto che dal XVII secolo la linea di demarcazione, tra falsari e restauratori, è molto labile; restaurare significava includere parti antiche sulle quale venivano integrate le parti mancanti, di conseguenza era considerata una pratica lecita rispetto alla falsificazione.
“Le epoche più legate alla tradizione sono quelle che nei suoi confronti si sono permesse più libertà” ed è soprattutto nel XIX secolo che il fenomeno acquista i tratti distintivi che attualmente lo contraddistinguono: si falsificano di proposito i grandi maestri del rinascimento ed i così detti primitivi per l’ingente richiesta di mercanti disonesti, pronti a soddisfare le richieste dei collezionisti.
Icilio Federico Joni un artista di talento
La figura di Icilio Federico Joni si staglia in questo panorama come una personalità dotata di grande talento, ingegno, arguzia ed ironia. Lo dimostra la stesura dell’autobiografia intitolata “Le memorie di un pittore di quadri antichi” nel quale Joni narra le sue vicende di fanciullezza, fino ad arrivare alla produzione di “quadri antichi” come lui sostiene:
Io ho intitolato questo mio libro, Le memorie di un pittore di quadri antichi, e mi par di udire qualcuno dei tanti arricchiti antiquari, dire: Non antichi, falsi! No, cari signori, i falsi li fanno coloro che fabbricano i biglietti di banca, perché si servono della stampa, oppure quelli che fabbricano le monete perché si servono di uno stozzo. Un artista che crea un’opera d’arte originale, pure imitando la maniera di un antico maestro, non fa un falso, ma tutt’al più una imitazione, e crea un opera d’arte lui stesso. E se poi fa un’opera che, pur rispecchiando il carattere del XIV o XV secolo, non segue la maniera di nessun maestro, allora non è nemmeno una imitazione, ma una creazione vera e propria. Ma qualche Catone arricchito arriccerà il naso a queste mie giustificazioni e le giudicherà assurde. Se alcuni di costoro ricordassero l’inizio della loro carriera! … altro che quadri falsi!
La pubblicazione delle memorie venne ostacolata non soltanto dai mercanti (citati nel libro), ma anche dagli storici dell’arte, che temevano ripercussioni sulla loro carriera. Vennero offerti a Joni ingenti somme di denaro che lui rifiutò ed infine nel 1932 il libro venne pubblicato.
All’interno di esso, le accuse rivolte a Berenson (identificato nel libro con il nome di Somberen) e Perkins (lo straniero) erano troppo generiche e non influirono sul loro prestigio. La pubblicazione in inglese avvenne quattro anni più tardi, nel 1936, con una traduzione mitigata e censurata nelle parti relative ai due studiosi.
La riscoperta e l’amore verso l’arte Tardo Medievale e Rinascimentale si attua con la già citata “Mostra dell’antica arte senese” prima a Siena e poi a Londra, al Burlington Fine Arts Club; ed è grazie a questa esposizione che nasce un clima di grande fervore commerciale- artistico. I pittori, appena diplomati all’ accademia, entrano a lavoro nelle botteghe di restauratori ma, come avevo sottolineato in precedenza, il confine tra rifacimento parziale e quello ex novo è sottilissimo ed il passo è breve.
Joni, approfittando di questo fermento culturale, grazie alla riuscita di alcuni restauri e di alcuni lavori ex novo venduti come antichi, entrò nel giro dei grandi collezionisti. Questi falsi realizzati alla “maniera di” gli garantirono un grande successo, in particolar modo, quando fecero il loro ingresso in collezioni importanti.
Icilio Federico Joni e il Somberen
All’inizio di giugno del 1899, in un viaggio verso Venezia, Bernard Berenson e sua moglie Mary ebbero il forte sospetto che alcune delle opere acquisite, presso l’atelier Torrini, potevano essere dei falsi. Questo dubbio si insinuò ancor più deciso quando videro a Venezia, presso l’atelier Toffoli, molti lavori simili a quelli che avevano acquistato loro.
Effettivamente, in una lettera alla sua famiglia, Mary scrisse: << If Bernard’s pictures are forgeries then of course it is clear his science- and no one’s can distinguish. As to be beauty- they are lovely! But there are too many of them.>>.
Il 26 Maggio dello stesso anno, Berenson si era procurato una ricevuta superstite dall’Atelier Torrini che attestava le 450 lire italiane spese per l’acquisizione di un dipinto antico. L’opera, attribuita a Benvenuto di Giovanni, doveva essere venduta a Isabella Gardner, quindi Berenson volle avere conferma sull’autenticità di quest’ultima. Il ritratto di Alberto Aringhieri fu spedito al restauratore Cavenaghi che, tra il 23 e 24 giugno, asserì che si trattava di un falso.
Il viaggio a Siena e l’incontro con Joni
Accadde che, nell’ottobre dello stesso anno, i Berenson andarono a Siena cercando “quel dipintore di quadri antichi”; quando gli venne indicata la bottega, giunsero al laboratorio di Icilio Federico Joni e l’americano si presentò dicendo: << io sono quello che comprava tutti i suoi quadri da Torrini >>. I due americani vennero come catapultati indietro nel tempo, la bottega offriva una finestra sul passato: c’era chi stendeva la patina antica sulla superficie, chi era incaricato di sporcarla, chi si occupava di tarlare il legno ed un gruppo di bambini sorvegliava le tavole che erano messe al sole a stagionare un po’, come insegna Cennino Cennini nell’Libro dell’arte. Mary Berenson testimonia in una lettera:
We have run our forger to earth- but a very easy matter it was- for “He” is a rollicking band of young men, cousins and friends, who turn out these works in cooperation, one drawing, one laying in the colour, another putting on the dirt, another making the flames, and some children with a big dog keeping guard over the pictures that were put in the sunshine to “stagionare”. A real Renaissance group of jolly workers, intent on sport, burlo, and their trade, which they never think of as art. Their chief is Federigo Joni, a rakish-looking man of 30, very free and easy- a good fellow. They hide nothing.
Nacque così, tra il falsario ed il collezionista, un saldo rapporto. Questo incontro tra Icilio Federico Joni ed il Somberen fu molto significativo perché dimostra, innanzitutto, come all’epoca l’attività di falsario era accettata in città senza destare scandalo ed in più faceva luce sul rapporto artista- mercante- collezionista. Ossia molto spesso i mercanti, grazie anche all’aiuto di storici dell’arte, facevano passare per autentiche opere che in realtà erano pure contraffazioni.
Tuttavia, a mio avviso, bisogna cercare di sciogliere una trama più complessa di quello che appare. Secondo me, Bernard Berenson non era una personalità facile da truffare soprattutto nel suo campo; lui già sapeva che le tavole acquistate non erano autentiche, ma era un tacito accordo.
Perché? Semplicemente perché faceva comodo; invero, grazie a Berenson, Joni entrò nel giro di ricchi collezionisti come Perkins o Dan Fellows Platt. Era come se Berenson, visto la sua grande fama nel mondo dell’arte, autenticasse i dipinti di Joni, che poi andavano all’estero a fare parte di famose collezioni venendo esposti con attribuzione errata. La pubblicazione in Inghilterra delle Memorie, non a caso, venne posticipata e sembra proprio che l’edizione inglese sia stata fatta sparire dalla circolazione molto velocemente e, forse dietro a ciò, c’è il nome del Berenson; il famoso storico dell’arte, probabilmente, era più coinvolto di quanto volesse far sapere.
Il collezionista cercò di persuadere Joni a smettere con i lavori di contraffazione, convincendolo a esibire le sue opere in un’esposizione personale. La mostra ebbe luogo a Firenze in un locale situato in via Enrico Poggi nel 1909 ma, come scrive anche Joni nell’autobiografia, fu un grande flop.
Il Caso del Polittico di Agnano e alcuni Falsi d’Autore col marchio P.A.I.C.A.P.
Nella sera del 21 luglio 1944 un bombardamento distrusse la chiesa di S. Jacopo Apostolo ad Agnano, dove sotto le macerie si scoprì l’omonimo polittico a cinque scomparti. Il dipinto era stato commissionato dall’arcivescovo di Pisa Giovanni Scarlatti che, negli ultimi anni della sua vita, aveva fondato ad Agnano un monastero. Il polittico era destinato all’altare maggiore ed i monaci Olivetani vollero Cecco di Pietro come dipintor per questa opera, realizzata alla fine del Trecento.
Le difficoltà del monastero
Nel 1486 il monastero si trovò in difficoltà e venne acquisito da Lorenzo de’ Medici, la cui figlia Margherita sposò Franceschetto Cybo; di conseguenza, la famiglia Cybo divenne proprietaria del monastero e dell’intera tenuta di Agnano. Dai Cybo il complesso passò ai Malaspina ed infine ne divenne proprietario Francesco V d’Austria Este.
La tavola di Cecco di Pietro venne spostata dall’altare maggiore al coro, dal coro al secondo altare e, agli inizi del Novecento, fu trasferita sulla parete destra. Si racconta, però, che tra fine Ottocento e gli inizi del Novecento, con la riscoperta dei primitivi, i proprietari del polittico decisero di tenere il dipinto nella loro villa ad Agnano; la tavola, in seguito, grazie alle lamentele del parroco e dei parrocchiani fu riportata nella chiesa. Dopo varie vicissitudini, ed estinta la casa d’Este, la tavola fu venduta a Oscar Tobler. Tra il 1930 ed il 1936 la chiesa di Agnano subì dei restauri e così anche il polittico, che nel 1937 venne riposizionato nella chiesa sull’altare maggiore.
Il recupero dopo il bombardamento
Dopo il bombardamento del 1944, che distrusse la chiesa, si cercò di recuperare il possibile dalla tavola; un ragazzino trovò gli elementi della cimasa ma lo stato di conservazione del polittico era precario. Nel 1961 Enzo Carli, specialista di maggior rilievo per quanto riguardava l’arte del Trecento, aveva determinato che il polittico di Agnano era opera indubbia di Cecco di Pietro.
L’incuranza dei proprietari insospettì non solo il Carli, ma anche il Soprintendente Lumini, che ottenne un’ordinanza di sequestro delle parti mancanti del polittico che i proprietari tentavano di vendere all’estero.
Quando tutti gli elementi del polittico vennero riuniti e portati al museo nazionale di S. Matteo, ci si accorse che in prossimità di altre opere di Cecco di Pietro, i frammenti di quest’ultimo non risultavano congrui. Erano simili ma non identici! Sbucò fuori così un secondo polittico di cui non si avevano notizie!
La Soprintendenza di Pisa si trovò di fronte ad un falso e non aveva la più pallida idea di dove si trovasse quello originale. L’unica possibile traccia era un rapporto dei carabinieri del 1938 nel quale si diceva che la commissione tedesca si era interessata al polittico e che, molto probabilmente, era stato ceduto ai nazisti e sostituito con il falso.
Il 7 giugno 1965 i proprietari consegnarono spontaneamente l’opera di Cecco di Pietro alla delegazione per il recupero delle opere d’arte; la tavola era stata sostituita con la copia in occasione dei restauri del 1930. Inoltre per proteggerlo dalle razzie dei tedeschi, dalla villa di Agnano, era stato spostato alla villa di Calci dove fu imballato e murato.
Si attesta che la copia fu eseguita non prima del 1932 ed il pittore fu un certo Joni; si può dire che è l’imitazione meglio eseguita da quest’ultimo, come sostiene il Ciardi.
Adesso il vero polittico di Agnano è conservato a Pisa presso la sede della Cassa di Risparmio.
Di falsi prodotti da Joni ce ne sono in abbondanza; ne cito solo alcuni giusto per far capire il talento di questo artista. Per Il ritratto muliebre di Ghirlandaio fu accusato il giovane conte Chigi Saracini della sua deplorevole alienazione per la cifra di 350.000 Lire, anche se oggi si dice che il dipinto sia stato sostituito.
Ad ogni modo una copia venne realizzata dal truffaldino Joni, che lo conferma nelle Memorie. Nella collezione dei Berenson a Villa i Tatti permangono solo due dipinti di Joni acquistati come autentici: una Madonna con bambino ed un trittico. Indubbiamente i lavori meglio eseguiti non sono ancora stati scoperti e magari continuano ad essere esposti in importanti musei con l’attribuzione ad un Maestro Senese!
Alcune norme indispensabili per fare l’invecchiamento dei dipinti
In una lettera datata 1945, un anno prima della sua dipartita, Joni descrive le norme indispensabili per poter invecchiare un dipinto, basandosi sul manuale di Secco Suardo.
Vorrei riportare in questo elaborato le regole che Joni seguì durante tutta la sua produzione, per poter indirizzare il lettore ad una più facile comprensione dei metodi di lavoro e di preparazione di un dipinto.
Innanzitutto un punto fondamentale su cui far luce è il significato di preparazione e imprimitura.
La preparazione di un falso
La preparazione è il primo strato, molto spesso di gesso e colla animale, a venire a contatto con la tavola o la tela. Solitamente svolge la funzione di base per la stesura del colore che verrà a costituire il dipinto, nonché garantire la conservazione dei colori nel tempo. La sua funzione primaria è quella di creare una superficie planare dove l’artista può dipingere evitando le varie nodosità del legno o della tela: << Scopo delle preparazioni infatti è quello di rendere il supporto idoneo ad accettare lo strato pittorico. Il materiale costituente il supporto, di solito legno o tela, non ha autonomamente caratteristiche fisiche tali da poter ricevere direttamente il film pittorico.>>
Il termine preparazione è utilizzato come sinonimo di imprimitura, difatti imprimitura significa “prima mano”. Nel dizionario L’arte (critica e conservazione) l’imprimitura è così definita: “è uno strato di preparazione che permette alla tavola o alla tela di ricevere meglio il colore; per misture oleose si usa anche il sinonimo di mestica, termine col quale si allude piuttosto al materiale usato che alla superficie che si è preparata.”
Non a caso uno dei più grandi scrittori del Cinquecento Giorgio Vasari utilizza il termine mestica come sinonimo di imprimitura “[…] fatto ciò se la da una o due mani di colla dolce e dappoi la mestica o imprimitura.” Un’altra fonte che attesta la sinonimia tra imprimitura e mestica è il Vocabolario Toscano dell’arte del disegno (1681) di Baldinucci Filippo, nel quale alla voce imprimitura si trova scritto “v. mestica” segue poi alla voce mestica “Composto di diverse terre, e colori macinati con olio di noce, o di lino; serve per dare alle tele o tavole, che si vogliono dipignere; e dicesi anche dagli Artefici imprimitura.”
Il supporto migliore per un falso
Fatto luce su questo punto, che a parer mio ritengo esser fondamentale, per la preparazione Icilio Federico Joni consiglia di utilizzare una tavola di legno bianco o dolce, vecchia e ben stagionata, tanto meglio se è la tavola di un vecchio dipinto. Prima di porre la preparazione bisogna tenere il supporto al sole (in estate) o bruciarlo un po’ (in inverno) di modo che se il legno si deve spaccare lo fa subito. Bisogna utilizzare per l’imprimitura colla da oro in stecche, che viene disciolta in acqua e scaldata a bagno maria, fatto ciò si aggiunge il gesso dando in seguito una prima passata sulla tavola. Bisogna, in un secondo, momento aggiungere tanto gesso quanta è la colla e dare almeno sei mani sulla tavola in modo uniforme.
Trattare il gesso asciutto
Quando il gesso sarà ben asciutto si dovrà bagnare la superficie con una spugna, di modo che la rasiera da falegname tolga con facilità le imperfezioni dello strato di gesso rendendolo omogeneo. Dopo la levigatura, si dà un spruzzata con il polverizzatore, rimettendo poi al caldo la tavola e ripetendo questa operazione fino a che il gesso non presenterà delle crettature.
Joni racconta che, all’inizio del mestiere più le crepe sulla tavola erano abbondanti più i dipinti sembravano autentici. Il gioco, però, venne scoperto e lui fu costretto a realizzare delle crepolature piccole e fitte: operazione necessaria, prima della stesura del colore, per rendere l’opera contraffatta più naturale. Per ammortizzare la troppa lucentezza della preparazione è necessario aggiungere al gesso un po’ di Terra d’ombra, spianare il tutto con carta vetrata e levigare con una spugna bagnata.
Trattare le screpolature del legno
Le screpolature sul dipinto, invece, si ottengono in vari modi: quando il dipinto è secco (a tempera d’uovo) si bagna con il polverizzatore e si mette ad asciugare al sole o al fuoco.
Nel momento in cui la screpolatura sul dipinto diverrà fitta ed il colore sarà magro e snervato, si scalda il dipinto e si stende la vernice che dovrà essere leggermente macchiata. Un altro modo, per la crepolatura del dipinto, è quello di porre la tavola in una cantina umida e dopo 15 o 20 giorni toglierla e metterla al sole ripetendo l’operazione fino al raggiungimento della giusta crettatura della superficie pittorica.
Un ulteriore modo, forse il migliore per Icilio Federico Joni, è quello di mettere il quadro in una loggia (al riparo dalla pioggia) e lasciarlo lì per alcuni mesi possibilmente nella mezza stagione ed una volta per tutte dare la vernice. Stesa la vernice, il dipinto deve essere esposto al sole di modo che i colori vivaci vengano attenuati. Alla fine occorre stendere altre mani di vernice e, come ultimo, con la pelle di camoscio (o guanto), strusciare bene la superficie con polvere di seppia o pomice per dare al dipinto quell’aria di consunto.
Conclusioni
Personalmente, prima di intraprendere questo lavoro, non conoscevo la complessa personalità di Icilio Federico Joni e non mi ero mai soffermata a pensare alle dinamiche di nascita di un falso o da cosa deriva tutto ciò.
Mi sono innamorata, se così si può dire, di questo personaggio così irriverente e sprezzante e a suo modo così patriottico. Perché dico questo? Icilio Federico Joni non poteva essere un falsario qualunque. Cosciente delle sue capacità era una personalità lucida, sbeffeggiante verso le autorità e lo si può leggere nella sua autobiografia: alla fine è sempre stato un ribelle.
Questo spirito di sovversione lo dimostra anche nei sui lavori; lui crea “alla maniera di”, la sua è una rivalsa di carattere sociale: producendo il falso, ruba il denaro ai ricchi. È quasi un atteggiamento culturale e ideologico nel punire chi dall’estero veniva a portar via le testimonianze culturali del nostro Paese! Non a caso si firma PAICAP, acronimo che significa per andare in culo al prossimo che è identificato con le istituzioni, il ricco. E chi meglio di un falsario può farlo?
Icilio Federico Joni non determina il mercato è il frutto del mercato e produce perché c’è richiesta e questa richiesta nasce proprio dai collezionisti e dai critici!
Concludo con un estratto dal Giornale dell’antiquario di Gianni Mazzoni:
I critici … sono loro stessi che hanno creato i diversi Paicap … li hanno alimentati … esagerandone le loro doti stilistiche … li hanno incoraggiati perfezionati. È tanto più facile … rifare una cosa bella … che crearne una di sua invenzione… le linee della bellezza sono come i colori… si sentono e si traducono; […] il ricco… il critico può dare nomi ai dipinti … come glielo può togliere o correggere …Paicap si è divertito con i critici aggiogandoli al suo carro ed io vivente posso asserirlo… domandiamo loro perché da infantili in arte e poveri come Murray, Berenson e Perkins divennero potentati di ricchezza … e di sapienza catalogatrice
Articolo molto ben fatto, ricco di particolari e di competenza, almeno studiata.
In maniera forse un po’ dissacrante, metterei il significato dell’acronimo all’inizio dell’articolo e non lo relegherei nelle ultime righe senza nemmeno l’evidenza di virgolette, corsivo o nero.
Questo farei perché la cifra di tutto, da un punto di vista semantico, è proprio l’iconografia dissacrante di questo sornione eroe normale. citerò comunque il vostro buon lavoro nel mio sito, per quel che può valere.
Cordialmente.